Segnalo questo articolo di Barbara Spinelli, che richiama il mito di Antigone.
La legge di
Antigone e le colpe dell'Europa
INUTILE parlare di
Europa madrepatria della democrazia, e proclamare nella sua Carta dei diritti
che siamo "consapevoli del suo patrimonio spirituale e morale", dei
suoi "valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza
e di solidarietà", quando tutto in noi pare spento: tutti i miti che fanno
la nostra civiltà, assieme ai tabù che la sorreggono. E tra i primi forse il
mito di Antigone, senza il quale non saremmo chi siamo. Oppure la solenne legge
del mare, che obbliga a salvare il naufrago, quasi non esistesse peggiore
sciagura delle acque che si chiudono mute sull'uomo. Il mare è senza generosità,
scrive Conrad: inalterabile, impersona l'"irresponsabile coscienza del
potere".
Sono uniti, i due miti,
dalla convinzione che fu già di Sofocle: la norma superiore cui Antigone
ubbidisce – fissata da dèi arcaici, precedenti gli abitanti dell’Olimpo – il re
di Tebe non può violarla, accampando la convenienza politica e le proprie
transeunti idee di stabilità. È norma insopprimibile, e Creonte che antepone il
diritto del sovrano, il nomos despòtes, paga un alto prezzo. Così la legge del
mare.
Quando sfoggia
vergogna, l’Europa suol cantilenare, come dopo Auschwitz, una sua frase inane
ma contrita: «Mai più!» Inane perché contempla il passato, non il presente. Ma
almeno è contrita. Oggi nemmeno questo: il «mai più» neanche è pronunciato, la
violazione è attribuita a cieca fatalità e si esibisce impudica. Un ministro –
si chiama Angelino Alfano, già ignorò il diritto d’asilo nell’affare kazako –
sta sul bordo del mare e dice che i 232 morti sottratti alle acque di Lampedusa
non saranno gli ultimi: «Non c’è ragione per pensare e per sperare che
sarà l’ultima volta».
Colpisce il divieto di
pensare, più ancora di quello di sperare. Neanche pensare possiamo, che
l’Europa sia qualcosa di diverso da un fortilizio militarizzato. Che stiamo lì
per difendere non solo un muro di cinta, ma gli esseri umani che disarmati
provano a valicarlo. Per il ministro, ben altra è la questione amletica:
dobbiamo sapere «se l’Europa intenda difendere la frontiera tracciata dal
trattato di Schengen. Uno Stato che non protegge la sua frontiera semplicemente
non è. L’Europa deve scegliere se essere o non essere».
Quattro considerazioni, a questo punto.
Primo: l’Europa è sì
davanti a un bivio esistenziale, ma non quello che con porte bronzee nega
l’idea stessa del bivio. Deve decidere se vuol essere all’altezza delle norme
che professa, e che da tempi immemorabili le prescrivono di accogliere i
fuggitivi, i supplicanti, oltre che di tutelare i confini da assalti stranieri.
Né l’emigrazione economica clandestina né la fuga da guerre o dittature (spesso
sono la stessa cosa) sono equiparabili a attacchi esterni. Vengono equiparati
invece, e per questo è lecito parlare di guerra nel Mediterraneo.
Il fuoriuscito stipato
con i suoi nei barconi è trasformato in nemico. In homo sacer, come scrive
Giorgio Agamben: vita nuda, soggetto non legale, bandito pur appartenendo agli
Dèi: uccidibile. Entra in Europa e «vive in orbita», dice la lingua
burocratica. La legge antichissima si spense, quando nel 2004 l’Unione creò
Frontex (Agenzia che gestisce le frontiere esterne). Frontex coordina le misure
di polizia, pattuglia coste, garantisce il rimpatrio dei clandestini. La
protezione dei diritti umani è un obiettivo residuale, un ornamento.
Seconda considerazione:
l’Europa ha sue responsabilità, ma l’Italia non ne ha di minori. Il reato di
clandestinità, introdotto nel 2009 dal governo Berlusconi, definisce un crimine
in sé l’esodo senza permessi anticipati. Di qui la parentela con la guerra:
come se il clandestino fosse un combattente irregolare e specialmente
insidioso, perché non combatte a viso scoperto, indossando l’uniforme, ma
conduce una sorta di guerriglia che si confonde e confonde. Ecco la legge di
Tebe che si sovrappone alla norma di Antigone. La sicurezza e la stabilità–
quest’ultima è addirittura eretta da Enrico Letta a «valore assoluto » , nuovo
non negoziabile articolo di fede – esigono sacrifici e morte. Il migrante, bollato,
è un pericolo sociale. La Corte Costituzionale s’oppose (sentenza n. 78/2007),
escludendo che lo stato d’irregolarità sia sintomo presuntivo di pericolosità sociale; ma il
reato appena ritoccato (scompare la pena detentiva) resta. Fin dal 2002 la legge
Bossi-Fini preparò il terreno: ingiungendo il respingimento immediato del
migrante (poco importa se restituito o no alle dittature cui scampava) e
rendendo impraticabili le procedure di concessione di asilo.
Di qui il pervertirsi
della norma instaurata prima ancora che Cristo nascesse – Soccorrere è un
dovere, non soccorrere è un reato — iscritta nella Convenzione di Ginevra sui
rifugiati come nella Carta europea dei diritti fondamentali dell’Unione (art.
18). Non soccorrere è peccato di omissione, e più precisamente crimine di
indifferenza. Che senso ha dire «mai più», se non vediamo che il delitto di
clandestinità per forza incentiva l’omissione di soccorso. Chi aiuta il
naufrago incorrerà in processi e pene per favoreggiamento del reato, e
preferirà voltare lo sguardo altrove. È già successo. Nei paesi occupati dai
nazisti, in Polonia ad esempio, chi tendeva la mano all’ebreo rischiava la morte.
Terza considerazione:
parole come vergogna andrebbero abolite, nel lessico della politica. Nascono
dall’emozione, dalla scossa introspettiva, non necessariamente osano l’aperto,
l’agorà dove si disfano e si correggono le leggi positive. Dette dal Santo
Padre hanno un senso, ma in politica conta l’azione, non l’emozionarsi e il
compatire. Lo Stato sociale e la politica di asilo sono nati per sostituirsi
alla carità, che è grandiosa e non si vanta e non si gonfia, ma è affidata al
singolo o alla Chiesa.
Infine la quarta
considerazione: le guerre da cui evadono i “migranti” il più delle volte ci
vedono protagonisti. Le abbiamo attizzate noi, pretendendo di portare ordine e
creando invece caos e Stati disfatti: in Africa orientale, Afghanistan, Iraq,
Somalia e Eritrea, Siria. I confini siriani che scatenano conflitti, fu
l’Europa coloniale a disegnarli. Gli esodi hanno a che vedere con noi.
Qualche tempo fa, in
una trasmissione della radio tedesca (Südwestrundfunk, 26 giugno 2008, il
titolo era: Guerra nel Mediterraneo), venne intervistato un alto dirigente della Guardia di
Finanza italiana, Saverio Manozzi, arruolato nell’agenzia Frontex. Difficile
dimenticare quello che ammise. Più che salvare, i guardiani delle mura erano
chiamati alla caccia, alle retate: «Ho avuto a che fare con ordini secondo cui
il respingimento consisteva nel salire a bordo dei barconi o delle navi, e nel
portar via i viveri e il carburante affinché i transfughi non potessero
continuare il viaggio, e facessero marcia indietro».
Salvataggi e aiuti sono
considerati un azzardo morale, perché fomentano sempre nuovi immigrati. Meglio
dissuaderli con l’arma ultima: quasi 20.0000 affogati nel Mediterraneo, dal
1988. Si muore anche appesi ai fili spinati di Ceuta e Melilla, le due enclave
spagnole sulle coste del Marocco. O nelle acque del fiume Evros, ai confini fra
Turchia e Grecia. In Francia, respinti sono i Rom.
Di azzardo morale
si parla molto in questi anni di crisi. È l’assillo dei moderni Creonte. Gli
Stati indebitati dell’Unione non vanno troppo aiutati: la solidarietà (welfare
compreso) incita i viziosi a rammollirsi, a peccare ancora e ancora. Se
assicuri la casa dal fuoco, non baderai più ai fiammiferi che accendi: ti
rilasserai. La logica della polizza assicurativa si fonda sul sospetto, non
sulla promessa e il dover- essere di Antigone. Se cadi disteso per terra o nel
fondo marino qualche colpa ce l’avrai. Come dice Kafka: stramazzando susciterai
ribrezzo, paura, perché dal tuo corpo emanerà il «puzzo della verità ».
(La Repubblica, 9 ottobre 2013)
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